CALABRIA – La famiglia motore economico

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La debolezza di vincoli di natura economica, ma anche sociali e istituzionali, all’interno della realtà rurale della Calabria ottocentesca, era un dato evidente, presente a molti osservatori contemporanei. Essa nasceva, sostanzialmente, dai particolari caratteri sociali su cui si reggeva la vita produttiva della grande massa della popolazione. I contadini, prima che un ceto sociale omogeneo per livello dei redditi, natura dei bisogni, cultura e mentalità prevalenti, erano soprattutto un insieme di famiglie contadine: vale a dire una molteplicità di piccole imprese familiari, indipendenti le une dalle altre, che fondavano l’esistenza e la coesione del nucleo domestico ciascuna sull’unità isolata del possesso fondiario e sull’impresa agricola.

La famiglia era invero il centro motore dell’azienda. I suoi membri, oltre a costituire l’articolazione di un istituto naturale e civile, e a incarnare l’intelaiatura umana e affettiva dei legami di consanguineità, erano funzioni di una vita economica spesso rigidamente programmata e diretta (1). Peraltro, lo stesso matrimonio, la formazione di ogni nuova famiglia, si collocava in genere all’interno di una strategia che poneva in rilievo dominante la funzione economica cui doveva ubbidire la nuova unione.

In tutti i matrimoni – ricordava ancora l’Inchiesta agraria – predomina sempre piuttosto l’interesse, che la simpatia. La donna se appartiene a famiglia agiata in dote tutte le masserizie di casa e spesso vi aggiunge un peculio che vale dalle lire 50 alle lire 100. La maggior parte dei matrimoni avvengono dall’agosto al febbraio, cioè quando si sono sbrigati gli allevamenti dei bachi ed lavori della mietitura (2).

I matrimoni erano apertamente e consapevolmente funzione dell’attività economica primaria. E se essi non si davano senza un nucleo minimo di reddito, poteva anche capitare che si realizzassero per la conservazione di una base economica già costituita. «Si hanno poi casi di giovanissimi – ricordava ancora in questo secondo dopoguerra uno studio su una zona della Calabria interna – che prendono in moglie la propria cognata, rimasta vedova, perché quella famiglia e quel patrimonio si conservino integri» (3). Ed erano ormai, da decenni, matrimoni sempre più precoci, che davano vita a famiglie nucleari, ristrette, composte di pochi membri, ma sempre subordinati a calcoli di redditività economica alquanto precisi:

Al piccolo proprietario — spiegava il Mortara nel suo lucido saggio sulla demografia di Basilicata e Calabria – conviene procurarsi al più presto possibile una custode del focolare domestico, la quale nei periodi di più intenso lavoro dei campi possa aiutarlo, supplendo alla deficienza di mano d’opera. Oltre che per questo diretto ausilio che porge, essa gli giova procreando ed allevando figli, i quali dopo pochi anni potranno assistere il padre nel duro lavoro e prepararsi a sostituire nuove forze a quelle di lui, stremate dalla fatica o dalla malaria. Per il giornaliero di campagna, cui non è dato nutrire speranza di futuro maggiore benessere, è press’a poco indifferente, dall’aspetto economico, sposarsi prima o poi; onde seguendo la consuetudine ed il naturale impulso, i più preferiscono torre moglie in età giovanile. Anche a questa categoria di lavoratori, minacciati di precoce riduzione della validità, deve il matrimonio apparire quasi una forma di previdenza: sposandosi giovani, a quarant’anni potranno già avere figli che validamente concorrano al mantenimento della famiglia (4).

La famiglia contadina era dunque un nucleo ben stabile dell’azienda agricola, luogo di riproduzione della forza-lavoro, centro di soccorso e di mutua solidarietà fra i suoi membri. Indubbiamente, la cellula fondamentale intorno a cui si aggregava l’esile intelaiatura collettiva della vita delle comunità nelle campagne (5).

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Da LE REGIONI DALL’UNITA’ AD OGGI – LA CALABRIA – P. Bevilacqua

FOTO: Rete

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NOTE

1 -Cfr. I A, p. 238. Era peraltro diffuso il costume che i genitori si facessero «depositari dei salari dei figli», quando questi svolgevano prestazioni fuori dell’azienda domestica (IA, p. 120).

2 -IA, p. 328. Il matrimonio, infatti, si realizzava di norma secondo precise regole contrattuali che, a seconda del censo dei promessi, potevano essere affidate a un notaio – come avvenne a lungo presso le famiglie benestanti – oppure ad accordi orali fra parenti. L’elenco dei beni che dovevano essere portati in dote erano in genere affidati ai «capitoli», che avevano diverse denominazioni locali. «Quando un giovane chiedeva in isposa una ragazza, per mezzo di ‘n’ambasciaturi [mezzano], il padre della giovine mandava al giovine sposo copia dei capitoli; e se questi non riuscivano di piena sua soddisfazione, li doveva senz’altro restituire nelle ventiquattrore» (R. LOMBARDI DI SATRIANI, Consuetudini giuridiche calabresi. Usi matrimoniali, in «II folklore italiano», 1934, fasc. l-lV). Alcuni contratti matrimoniali del Settecento e dell’Ottocento vengono in parte richiamati da R. CORSO, Pittacium. La nota del corredo nei contratti nuziali calabresi, estr. da «Rivista Italiana di Sociologia», Roma 1921.

3 – P.TRUPIA, Èzzito. Uno studio d’ambiente nella Calabria Nord-Occidentale, Roma 1961, p. 19. Sulla necessità di una base economica quale condizione del matrimonio, cfr. Monografia della città di Cassano cit., p. 108. Secondo la testimonianza del Nitti, ai primi del Novecento, la ricerca di dote spingeva a rapporti più stretti fra i diversi paesi: «Aumentano, a quanto pare, i matrimoni fra giovani di differenti paesi, soprattutto nelle famiglie più agiate, a causa delle cresciute difficoltà di trovar convenienti matrimoni o buone doti nel proprio paese» (Scritti sulla questione meridionale,

vo1- V, Inchiesta cit., I, p. 311).

4 – M9RTARA. Le popolazioni cit., p. 113. Il Mortara si riferiva in questo caso alla Basilicata, ma la flessione era perfettamente applicabile alla Calabria. Secondo i dati del censimento del 1901, «Di fronte alla media del Regno di 4,52, la Calabria offre il quoziente di 3,98 ed occupa per scarsità del numero di persone componenti la famiglia il secondo posto, subito dopo la Basilicata e ha il quoziente 3,89» (L. DE NOBILI, Cenni demografici, in TARUFFI, DE NOBILI e LORI, La questione agraria cit., p. 96).

5 –  Sulla solidarietà interna cfr. IP, p. 592. Sul ruolo centrale del pater familias, richiamato indirettamente da tanta letteratura, si veda essenzialmente R. CORSO, L’autorità paterna nelle tradizioni popolari calabresi, in «Cultura regionale», 1930, n. 2-3. La trasmissione orale degli insegnamenti morali avveniva attraverso le massime, che in Calabria erano dette «dittèri» (ne da un breve e insoddisfacente ragguaglio G. BERARDELLI, I dittèri calabresi per l’educazione dei figli, in «Folklore calabrese», 1959, fasc. I-IV)

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