IL SUD NEGLI ANNI ’70, una storia triste

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Tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta ci fu una ripresa degli investimenti delle imprese a partecipazione statale, specie al Sud. Si pensi al raddoppio della capacità produttiva dello stabilimento siderurgico di Taranto o alla costruzione dello stabilimento Alfasud a Pomigliano d’Arco. Ma al Sud anche questa nuova fase di investimenti pubblici si concentrò su settori ad alta intensità di capitale, a grande produzione di massa e su settori in crescente difficoltà, come la siderurgia. Ma la grave crisi economica che si aprì nel 1973, di cui parleremo più ampiamente, colpì soprattutto il modello della grande azienda e i settori maturi in cui l’impresa pubblica era particolarmente rappresentata. Ancora una volta l’economia meridionale non trasse vantaggi ampi e diffusi dagli investimenti statali, mentre aumentava lo squilibrio territoriale tra un Centro-Nord dotato di un settore industriale ancora dinamico e un Sud con un’industria sempre più dipendente da investimenti pubblici scarsamente produttivi.

In quegli anni maturò il definitivo fallimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, che non riuscì a innescare un virtuoso processo di sviluppo sostenuto dalle risorse aggiuntive messe a disposizione dallo Stato. Il più delle volte queste risorse non fecero altro che stimolare gli appetiti delle locali élite politiche, amministrative ed economiche, dando vita solo di rado a imprese e infrastrutture produttive. Come già nel corso degli anni Sessanta, l’intervento straordinario garantì la fortuna di una classe politica mediatrice dei flussi di spesa, che su di essi costruì fitte trame di clientele utilizzabili a scopi elettorali. Allo stesso tempo assicurò risorse significative a una criminalità organizzata in costante crescita proprio grazie alla collusione sempre più stretta con gli ambienti politici che facevano da tramite tra centro e periferia.

Andreotti alla manifestazione del ’75 a Gioia T. per la posa della prima pietra per il porto

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Un esempio rivelatore dell’incapacità della classe di governo di immaginare e realizzare un intervento razionale e sostenibile a favore dello sviluppo economico meridionale è dato dalle vicende della piana di Gioia Tauro, in cui fiorivano i migliori agrumeti e oliveti della Calabria. Agli inizi degli anni Settanta queste coltivazioni furono distrutte per lasciare spazio a quello che sarebbe dovuto divenire il più grande centro siderurgico d’Europa. Dopo alcuni anni di lavori affidati anche a imprese mafiose, il progetto venne abbandonato, per essere sostituito da un nuovo progetto dell’ENEL per la costruzione di una supercentrale termoelettrica a carbone. Anche quest’ultimo non giunse al termine, dopo che lavori per ben 1.000 miliardi di lire, equivalenti a 516 milioni di euro, erano stati appaltati a grosse ditte del Nord e quindi subappaltati a imprese meridionali in mano alla mafia. L’intera vicenda si concluse con la realizzazione di un grande porto costato 500 miliardi di lire contro i 30 previsti e con un processo che vide sul banco degli imputati dirigenti dell’ENEL e delle tante ditte appaltatrici e subappaltatrici, nonché politici locali e nazionali.

Centro siderurgico sulla carta

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Nel corso degli anni Settanta l’economia e la società del Sud furono «drogate» da una spesa pubblica in costante aumento, sia sul fronte degli investimenti in opere pubbliche e impianti, sia sul fronte del sostegno all’agricoltura e al turismo, sia infine sul fronte dei trasferimenti assistenziali (pensioni, pubblico impiego). A sovrintendere tali trasferimenti non vi era ormai alcun progetto di sviluppo economico e sociale, definitivamente abbandonato a partire dalla crisi del 1973, ma solo logiche clientelari applicate da una classe di governo che, al centro come in periferia, sembrava disposta a tutto, dai rapporti con la criminalità organizzata al dissesto della finanza pubblica, pur di garantirsi il necessario consenso elettorale. La crescente spesa pubblica, unita alle rimesse degli emigranti, consentì anche al Sud di conoscere un aumento dei consumi e un adeguamento agli stili di vita che andavano imponendosi nel resto d’Italia. Ma raramente al nuovo benessere che caratterizzò alcune aree meridionali si accompagnò una crescita delle attività produttive. Il Meridione divenne un mercato in grado di assorbire beni prodotti altrove, principalmente al Nord.

Neppure i trasferimenti assistenziali dello Stato valsero a impedire l’aumento del degrado e della povertà in ampie aree del Sud Italia. Nel 1973 a Napoli scoppiò un’epidemia di colera, che, diffusasi presto in altre aree meridionali, causò una trentina di morti. Era la dimostrazione che il «miracolo economico», l’industrializzazione e lo sviluppo non avevano interessato tutto il paese allo stesso modo e che in molti casi il Sud continuava a fare i conti con condizioni di grave arretratezza.

Rivolta di Reggio

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Un segnale del disagio di molte realtà del Sud venne dalla rivolta di Reggio Calabria, scoppiata nel luglio 1970 in seguito alla scelta di Catanzaro quale capoluogo regionale. La protesta nasceva da una situazione di estremo degrado, caratterizzata da altissima disoccupazione e povertà diffusa, che portava la popolazione locale a riporre molte speranze nell’impiego pubblico, che la scelta di Reggio quale sede del governo regionale avrebbe assicurato. Nata spontaneamente, la ribellione fu presto fomentata ed egemonizzata dalla destra neofascista del Movimento sociale, che si proponeva come rappresentante dei settori più emarginati delle realtà urbane meridionali e che in questo modo costruì le proprie fortune elettorali nelle elezioni amministrative del 1971. A guidare il comitato d’azione dei rivoltosi fu il missino Ciccio Franco, mentre numerosi indizi segnalavano infiltrazioni dell’estrema destra eversiva e il sostegno della ‘ndrangheta. I «moti di Reggio» durarono fino al febbraio 1971, dando vita alla rivolta cittadina più lunga del Novecento italiano, con attentati dinamitardi, barricate, occupazioni della stazione e di altre infrastrutture pubbliche, blocchi stradali, assalti alla prefettura e alla questura, cinque morti e un migliaio di arresti. A porre fine alla rivolta fu l’impegno del presidente del Consiglio Emilio Colombo a costruire il fantomatico centro siderurgico di Gioia Tauro.

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Da “Storia dell’Italia repubblicana”, di Andrea Di Michele – Garzanti

Foto: Rete

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