Nascite e matrimoni a Roma

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Nella Roma repubblicana ed imperiale i neonati venivano accolti dalla società solo in conseguenza di una scelta del paterfamilias.

Dopo essere stato partorito, il bambino era posto sul suolo della casa dalla nutrice; se il padre era deciso a tenerlo, lo sollevava, riconoscendolo e stabilendo dei diritti su di lui. Il bambino non «sollevato» veniva esposto sulla pubblica via o soffocato o lasciato morire di fame. Questa decisione era presa più frequentemente in caso di figlie femmine.

Un figlio poteva essere rifiutato perché presentava evidenti malformazioni o perché appariva gracile ed esile. I poveri abbandonavano i figli che non erano in grado di mantenere, mentre i membri dei ceti medi li esponevano perché preferivano investire sforzi e risorse su un’esigua prole. Anche i più ricchi potevano rifiutarsi di riconoscere i propri rampolli: poteva accadere per ragioni patrimoniali, ma anche se c’era il sospetto che il bambino fosse il frutto di una relazione extraconiugale della madre.

Il tasso di mortalità infantile era molto alto. La tutela del neonato romano era perciò affidata ad una miriade di divinità, ciascuna delle quali era specializzata nell’accudirlo nelle diverse fasi della sua crescita: Vitunno gli donava l’alito vitale; Semino gli regalava i sensi; Opis lo accoglieva sulla Terra; Vaticano lo aiutava nel suo primo grido; Levana lo sollevava da terra; Cunina vigilava sulla culla; Rumino proteggeva l’allattamento; Paventino lo calmava quando aveva paura; Potina ed Educa gli insegnavano a mangiare e a bere; Adeona e Abeona gli insegnavano a camminare. Per scongiurare i mali che affliggevano i lattanti, era consuetudine sistemare un ramoscello di biancospino vicino alla finestra più piccola della casa ed offrire sacrifici in giugno alla dea Carna, che proteggeva dai mali di stomaco.

Il neonato riconosciuto dal padre veniva affidato subito dopo la nascita ad una nutrice che, oltre ad allattarlo, si occupava della sua educazione fino alla pubertà, coadiuvata in questo compito da un pedagogo (mitrìtor, tmpheus).Il ruolo della nutrice e del pedagogo aveva molto peso nella vita del bambino che viveva quasi sempre con loro; l’unico momento che trascorreva con i suoi genitori era quello del pasto della sera, che rivestiva una certa solennità.

All’età di quattordici anni il giovane romano di buona famiglia abbandonava le sue vesti infantili per iniziare a comportarsi come un adulto. Fra la pubertà e il matrimonio c’erano gli anni della libertà sfrenata, quelli in cui anche i genitori più moralisti e severi si lasciavano andare all’indulgenza. Era l’età dell’iniziazione amorosa e delle esperienze sessuali, alle quali il matrimonio poneva un freno, almeno apparentemente.

Il matrimonio era un contratto di natura economica; ci si sposava per una dote e per avere, in virtù di nozze legittime, discendenti legittimi per perpetuare il corpo civico. La donna non aveva diritti: veniva ceduta dal padre al marito già a 12 anni e la sua volontà non aveva alcun valore. La forma più completa di matrimonio era quella detta confarreatio,una vera e propria cerimonia ufficiale, celebrata alla presenza del flamine (sacerdote) di Giove, che prendeva il suo nome dal panis faireus, il pane di farro che gli sposi mangiavano al loro ingresso nella nuova casa. Accanto a questo rito nuziale, sempre seguito dal patriziato, vi era la coemptio, attraverso cui il poterfamilias riceveva un compenso pecuniario dal futuro sposo al quale vendeva simbolicamente sua figlia. L’ususera. invece una sorta di sanatoria di una condizione di fatto: diventava moglie la donna che avesse vissuto con un uomo per un anno intero senza interruzione di tre notti consecutive.

I sacra nuptialia sisvolgevano secondo un rituale drammatizzato, caratterizzato da alcuni elementi spettacolari: vestita di bianco e con un velo arancione (flammeum)sui capelli, al calar della sera, la futura materfamiliasfingeva di aggrapparsi alle braccia della propria madre, dalle quali veniva strappata con la forza, mentre musici, suonatorie portatori di torce formavano un corteo per accompagnarla alla casa dello sposo. Lungo il tragitto era scortata da Domiduca e Iterduca, divinità preposte a condurla verso la nuova dimora; appena giunta, Domitius la tratteneva e Manturna e altri numi la rendevano docile nei confronti del marito. Il flammeum aveva una valenza simbolica perché rappresentava la rinuncia alla libertà e la reclusione fra le pareti domestiche.

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Da “Storia delle Religioni” – La Biblioteca di Repubblica

Foto: Rete

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