Li chiamarono briganti

 

 

Questa foto, di molti anni fa, mi ha fatto venire in mente i “briganti”, che lottarono strenuamente contro l’esercito piemontese, dopo l’Unità d’Italia.

La retorica risorgimentale, che ha intossicato il nostro Paese fino ai giorni nostri, ha fatto passare per briganti i cafoni che si ribellavano perché derubati dai galantuomini delle terre demaniali, ex militari napoletani, patrioti, cittadini che non accettarono la fine violenta dello Stato borbonico e veri delinquenti. Tutti in un unico calderone.

I militari piemontesi considerarono brigante chiunque fosse sospettato di simpatia, conoscenza, consanguineità con i ribelli. E quindi soggetto subito a fucilazione.

Il drammatico sottosviluppo del Sud ha le sue radici nel modo come è stata fatta l’Italia e, soprattutto, nella politica discriminatoria fatta dai governi post unitari.

E’ tempo che i meridionali recuperino la memoria di quel che è stato, se si vuole costruire un futuro migliore per le nuove generazioni.

Scrive Salvatore Scarpino, a proposito della guerra civile che travagliò l’Italia e che provocò la morte di centinaia di migliaia di meridionali:

“Ma la repressione dello Stato unitario nel Sud fu cieca e indiscriminata, non fu occasionale, costituì un sistema di ingiustizia protratto nel tempo e diretto contro una larga fascia della popolazione, non solo contro i briganti.

Può apparire assurdo, ma in nome dello Stato liberale una contadina fu condannata a dieci anni di lavori forzati perché teneva in casa un ritratto di Francesco II e un sacerdote – i due episodi accaddero in Lucania – si ebbe quindici anni per avere regalato una giacca a un giovane che si unì a una comitiva di briganti. Quindici anni a un pastore che ammise candidamente di avere incontrato i briganti, i quali gli presero le ricotte e gliele pagarono: manutengolismo! Se non gliele avessero pagate, il pastore sarebbe stato una vittima del brigantaggio e magari avrebbe potuto anche farsi rimborsare dalla speciale «cassa» provvidamente, creata per quella categoria di danneggiati, ma ammise di avere ricevuto poche monete e non ebbe scampo.

E a tutti questi poveretti incappati nel meccanismo repressivo andò bene, tanti altri nelle stesse condizioni furono fucilati.

Si serba memoria negli archivi delle condanne, ma di tante fucilazioni sommarie non c’è traccia.

La parola manutengolismo si prestò a tutte le fattispecie: dalla fornitura di polvere da sparo ai ribelli fino
alla consegna di un pane a uno sbandato.

I valori della solidarietà familiare non vennero tenuti in alcun conto: si condannarono madri «colpevoli» di avere portato un po’ di cibo in campagna ai figli latitanti; quasi tutti i membri delle famiglie dei briganti conobbero, come ostaggi o manutengoli, il carcere: in nome della libertà, perché fosse sradicato il ricordo del Borbone liberticida.

L’operato dei tribunali militari fece inorridire anche molti unitari e piemontesi.

Furono fucilati ragazzi, donne, vecchi. Anche la parola «brigante» era molto elastica, in taluni casi bastava anche un furtarello per essere qualificati ribelli. Pietro Varuolo, studioso lucano, ha compiuto un’accurata ricerca d’archivio stilando una sorta di «anagrafe» dei briganti della sua terra. Scorrendo quelle pagine fitte di dati e nomi, si scopre che per le donne delle bande non sempre ci fu riguardo: Vincenza Odessa, della banda Ciccariello, venne fucilata nel gennaio 1862; Filomena Gabbamonte, ventun anni, fu uccisa «in conflitto»; Maria Maraffino, di San Fele, fu fucilata quando aveva vent’anni, nel 1862
E l’elenco potrebbe continuare.

Forse quei morti pesano ancora.

Dello Stato moderno, invadente ed efficiente, le popolazioni meridionali hanno conosciuto soprattutto la faccia peggiore e non ci si deve meravigliare troppo se gli strati più deboli di queste popolazioni hanno sviluppato una specie di interiore “estraneità” alle sorti dello Stato italiano”

Da “LA GUERRA CAFONA” di Salvatore Scarpino,   Boroli Editore

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