Il sapore della madre.

Le due facoltà, i due linguaggi, si manifestano nello stesso organo del corpo, la bocca, e si formano fin dalle prime fasi dello sviluppo, nei primi giorni e mesi di vita del bambino. Il volto materno della madre che parla e sorride, che porge il seno o dà la «pappa al bambino», è decisivo per il formarsi della personalità, lo strutturarsi dell’identità, della memoria, delle sensazioni. Forse per questo la «lingua madre» e la «cucina della mamma», per quanti mutamenti e arricchimenti e dilatazioni e anche tradimenti potranno conoscere, generalmente resteranno tratti indimenticabili, costitutivi dell’individuo.

L’individualizzazione delle scelte alimentari è presente anche nelle società con «soggettività collettiva», dove le possibilità di scelta sono limitate e regolate da esigenze e norme rigide. Le prime sillabe e parole della madre sono: mamma, papa, pappa e i termini usati nelle diverse lingue e dialetti per riferirsi all’acqua e al pane: il cibo, le parole, i legami. Per quante fughe compiremo, con tutti i tradimenti che commetteremo, con le dimenticanze delle origini che attueremo, con la progressiva e ininterrotta costruzione della nostra identità, parole, cibi, gesti, luoghi dell’infanzia difficilmente verranno cancellati o dimenticati, e anche quando rimossi, potranno affiorare in maniera imprevista e impensata, nei momenti più strani, magari nella vecchiaia e sul letto di morte. Come la lingua, l’accento e il tono, le pratiche e i gesti alimentari rivelano immediatamente la provenienza delle persone, anche quando esse tentano di occultarla o camuffarla. Il fanciullo del racconto Madre di paese (1955) di Corrado Alvaro

è stupito delle cose che sa fare per lui la madre: la forma dei dolci della festa; e un’altra cosa: come taglia la fetta del pane e come gli mette avanti la frutta. Ella punta la pagnotta contro il suo tenero seno, la taglia. Si sente sgrigiolare il pane, si sente l’odore della fetta tagliata. È come se la madre tagliasse una parte di sé; ella è parente della natura, di tutto quello che è buono e mangiabile.

Il cibo piace e giova a seconda di chi ce lo dà: quando lo dà chi ci ama davvero, è buono come lui. «Il ragazzo pensa oscuramente che il pane ha il sapore della madre, perché egli è ancora legato a lei, si nutre di lei». Cibo e parole. Mangiare e comunione.

Una lingua che una volta appresa non verrà più dimenticata, nemmeno quando si è fuggiti via, neanche quando si tenta o si pensa di essere diventati altri.

L’identificazione con un cibo, un piatto, una pianta aromatica, una maniera di cucinare, una tecnica di conservazione, un modo di consumare gli alimenti si afferma nel corso di un lungo periodo, segnato da penurie e da conquiste alimentari, da privazioni e da disponibilità, da necessità e da scelte. Attraverso la tradizione orale, ma anche con gli occhi e con l’esperienza, le persone del passato apprendevano quali erano i cibi buoni e accessibili, quali quelli che fanno bene o male alla salute, quali quelli irraggiungibili da rifiutare o da desiderare.

I riti periodici di passaggio, le feste stagionali, i pellegrinaggi, il periodo del Carnevale e quello del Natale erano i tempi-luoghi essenziali in cui si osservava e si praticava una cucina altra dalla quotidianità, che creava legami, aspettative, e poi ricordi, nostalgie. La preoccupazione e il desiderio del mangiare vengono espressi in numerose opere orali rivolte ai bambini. Nelle ninna nanne i cibi augurati ai neonati sono pitte di pane, latticini (formaggio, pecorino, ricotte), maccheroni. Anche nei racconti popolari, i cui destinatati principali sono i bambini, emergono la condizione e la cultura alimentare.

Con gli occhi e con la pratica, i bambini del passato capivano anche da dove arrivava il cibo, quanto fatica costava, quanta accortezza richiedeva, quanta pazienza e quante esperienze venivano messe in gioco prima di poter mangiare. L’efficace modo di dire «coltura-cultura» ricorda come la coltivazione, una delle principali attività produttive, fosse una cultura.

Nel mio paese, come in gran parte del Mezzogiorno d’Italia, in epoca moderna gli orti erano luoghi fondamentali di coltura e di cultura, di prodotti e di saperi. L’orto era una continuazione della casa, ripostiglio e frigorifero, madia e stipo all’aperto, luogo delle riserve dove si andava a prendere le provviste fresche, il prezzemolo, il sedano, il basilico, la cipolla, la lattuga. C’erano i fichi, l’uva fragola, i pomodori, le zucche, i peperoni: erano orti «abbiveratizzi» e non sempre bastava l’acqua, per questo le file alle fonti cominciavano nel cuore della notte e, spesso, nascevano ostilità per i turni.

Nell’orto noi bambini ci ricavavamo l’orticello, un orto in miniatura attorno ai due metri quadrati di terra, dove ci esercitavamo a coltivare: aiutato dalla nonna e da mamma, «zappulijavu» e piantavo prezzemolo, pomodori, patate, peperoni. Mi piaceva innaffiare ezappettare con una canna e, quando crescevano un pomodoro o dei fagiolini, mi sembrava di avere creato il mondo. Ma quel gioco «a fare l’orto» rivelava che l’economia e la cultura dell’orto stavano finendo. Eravamo la prima generazione che si staccava dalla campagna, dall’economia di sussistenza e dalla produzione. I grandi avevano già previsto per noi la scuola e gli studi.

L’educazione dei bambini non era rivolta soltanto alla conoscenza del valore nutritivo dei cibi, a stimolare preferenze alimentari realizzabili, o a scoprire un paradiso alimentare da cui da grandi essi sarebbero stati esclusi. Bisogna ricordare infatti il carattere gioioso che per i bambini assumeva il mangiare all’aperto in compagnia: andare a frutta, a caccia di uccelli, aspettare la «collura» con l’uovo o, quando si panificava, la pitta «avantiforno», l’attesa dei dolci nei periodi festivi. I bambini erano partecipi della sacralità e della religiosità del cibo.

Lo spazio della casa era organizzato in base alle esigenze di conservare, cucinare e mangiare assieme; anche come luogo dove vivevano gli animali, parte integrante della famiglia contadina. La campagna, i luoghi di raccolta, produzione e trasformazione dei prodotti (il bosco, gli alberi, i pagliai, le case rurali, i frantoi, i mulini, le cascine) erano strutturati, anche simbolicamente, in maniera da trasformare il territorio in un libro figurato del cibo.

Da FINE PASTO, di Vito Teti – Einaudi

Foto RETE

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