FILM – “Il giovane Karl Marx” di Raoul Peck

“Il giovane Karl Marx” di Raoul Peck è stato designato “Film della Critica” dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici (SNCCI) con la seguente motivazione: «Il regista haitiano Raoul Peck si muove sui binari del film biografico per riscoprire a 170 anni dalla sua stesura i motivi e le esperienze che spinsero Karl Marx e Friedrich Engels a pubblicare Il manifesto del Partito Comunista, sconvolgendo di fatto la realtà socialista e comunista per sempre. Un’opera che riscopre il valore didattico del cinema senza perdere mai di vista la passione narrativa e l’afflato dirompente della dialettica. Perché una rivoluzione è sempre una pietra che rotola».

Critica dei rapporti di produzione o del domino?

Scriveva Eric Hobsbawm: «Ai primi del 1848, l’eminente pensatore politico francese Alexis De Tocqueville prendeva la parola alla Camera dei Deputati per esprimere sentimenti comuni alla maggioranza degli europei: ‘Stiamo dormendo su un vulcano, – disse – Non vedete che la terra ha ripreso a tremare? Soffia un vento di rivoluzione, la tempesta cova all’orizzonte’. Quasi contemporaneamente, due esuli tedeschi, il trentenne Karl Marx e il ventottenne Friedrich Engels, formulavano i principi della rivoluzione proletaria nel programma che poche settimane prima erano stati incaricati di redigere dalla tedesca Lega dei Comunisti, e che apparve anonimo a Londra verso il 24 febbraio 1848 col titolo (tedesco) di Manifesto del Partito Comunista»[3].

Appunto, il momento cruciale è il “fatidico Quarantotto”, in cui si andranno precisando le posizioni nei campi antagonistici e, mentre si scatena per la prima volta nella storia un’ondata ribellistica che investe l’intero continente, «la borghesia cessò di essere una forza rivoluzionaria»[4]. Termina così quella fase di infusione rivoluzionaria – dal 1789 al 1848 – in cui socialisti, comunisti e liberali potevano marciare insieme sotto i vessilli della democrazia. In una singolare coincidenza di intenti che pareva accomunare Robespierre, Jefferson e – magari – Babeuf e Luis Blanqui. Per i neofiti Marx ed Engels il movimento democratico era l’orizzonte realistico verso cui indirizzare la spinta rivoluzionaria dei proletari. «Sinché non è stata conquistata la democrazia, – scrive Rosemberg – comunisti e democratici combattono spalla a spalla, gli interessi dei democratici sono quelli dei comunisti».

È in questa fase di grande fluidità dei profili militanti e di indeterminatezza categoriale che Karl Marx inizia la sua carriera in erba di grande teorico del movimento di emancipazione e di suo dirigente politico. E lo fa in un contesto – guarda caso – dichiaratamente “liberale”. Sicché – osserva Stefano Petrucciani – «sarebbe del tutto errato considerare Marx semplicemente come un nemico del liberalismo; anzi, bisogna ricordare che la presenza di temi schiettamente liberali è una costante che attraversa tutto il suo pensiero, anche se nelle diverse fasi assume modalità estremamente differenti. L’esperienza politica di Marx, com’è noto, comincia proprio nel segno del liberalismo: negli articoli che pubblica sulla Gazzetta renana, tra il maggio del 1842 e il marzo del 1843, il giovane filosofo è impegnato in battaglie tipicamente liberali come quelle in difesa della libertà di stampa, contro la censura, per l’autonomia dello Stato e la laicità rispetto alle confessioni religiose. La libertà, scrive Marx intervenendo nel dibattito sulla censura, ‘si identifica completamente con l’essenza dell’uomo’»[5].

La sua successiva presa di distanza avverrà riguardo a ciò che iniziava a considerare l’essenza del Liberalismo, ridotto a caricatura nel riferimento al profilo intellettuale di Jeremy Bentham[6]: l’identificazione della libertà nella proprietà e un’idea tendenzialmente anomica di individualismo; che, «rompendo con una tradizione bimillenaria, non pensa più la società come una cooperazione lavorativa per la migliore soddisfazione di ciascuno, ma, al contrario, la tematizza come una relazione tra estranei potenzialmente nocivi; che non nasce dal problema di soddisfare le necessità vitali di ciascuno, ma da quello di garantirgli l’ordinato godimento dei suoi beni dopo che egli ha provveduto da solo a procurarseli»[7]. Quanto Louis Blanc bollava come “egoismo privato”.

Insomma, un’estremizzazione della tradizione anglosassone – da Hobbes e Locke, dai puritani fino all’Utilitarismo – fondata sull’assunto unificatore che Crawford Macpherson definiva «individualismo possessivo»[8]; espressione di una mentalità mercantile per cui lo Stato è un semplice gendarme a guardia dei patrimoni e il lavoro umano pura merce. Quando, proprio nelle giornate parigine del 1789, andava prendendo corpo una tradizione alternativa, partita dalla condanna della schiavitù (che gli anglosassoni continuavano pervicacemente a difendere come espressione del diritto di proprietà) nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1793;, sulla quale aleggiava la proposta di un articolo 6, in base al quale «la proprietà è il diritto di ogni cittadino di godere di porzione di beni che gli è garantito dalla legge»[9].

Annota al riguardo Luciano Canfora: «Costituzione francese del 1946: ‘La proprietà è diritto inviolabile di usare, godere e di disporre dei beni garantiti a ciascuno dalla legge’. La ripresa dal testo settecentesco è ancora più evidente se si considera, in entrambi i casi, l’articolo subito successivo. Robespierre: il diritto di proprietà è limitato, come tutti gli altri dall’obbligo di rispettare i diritti altrui»[10].

Di certo Marx condivideva tali asserzioni. Ma c’è un ulteriore aspetto – in materia di “affinità elettive liberali inespresse” – che va rammentato: il Nostro avrà anche abbandonato il suo giovanile liberalismo, eppure quel retaggio continuerà a innervare aspetti non trascurabili del suo pensiero. Ad esempio la critica dello Stato “pesante”, ipertrofico e burocratico sviluppata nella Guerra civile in Francia, oppure il rispetto riguardo alle “libertà negative” del liberalismo: nella Critica del programma di Gothacritica lo «Stato educatore” sostenuto dai lassalliani, in base al principio che “ognuno deve poter soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni corporei senza che la polizia vi ficchi il naso».

Arriviamo al punto: il Liberalismo rettamente inteso non si configura come una scuola di pensiero unitario, bensì come metodo che persegue l’ispezionabilità e il bilanciamento del Potere, che propugna la creatività del dissenso. Nel primo caso potremmo parlare di “critica dei rapporti di dominio”; di cui la marxiana “critica dei rapporti di produzione” può essere considerata una deduzione, a specifica misura della società modellata dai processi di industrializzazione nell’ascesa della borghesia.

Il Biopic

Questo il quadro di riferimento.  Sinceramente mi sono avvicinato con qualche perplessità al film-biografia su “Il giovane Karl Marx” del regista Raoul Peck, girato nel 200° anniversario dalla nascita del “Moro di Treviri”, come era chiamato in famiglia questo dominatore della scena culturale ottocentesca e non solo; nella ricorrenza – appunto – dei 170 anni dalla pubblicazione del suo Manifesto dei Comunisti. Anche perché non mi avevano entusiasmato gli ultimi due biopic a cui avevo assistito: “Il Post” di Steven Spilberg, fumettistico e privo della magniloquenza necessaria quando si tratta di libertà di stampa (vedi “l’Ultima minaccia” con l’Humphrey Bogart annata 1952: «è la stampa, bellezza!») o della determinazione concitata nella ricerca della notizia (vedi “Tutti gli uomini del presidente” del 1976); “L’ora più buia” di Joe Wright, calligrafico e carente di senso epico nel ridurre l’intransigente contrapposizione al Nazismo di Winston Churchill nella resistenza tattica del navigato parlamentare (più che “vecchio leone”) alle cedevolezze suicide verso Hitler di colleghi politici inetti, ai loro meschini traffici di corridoio. E se Gary Oldman vince l’Oscar per la sua interpretazione, forse dovrebbe condividere il premio con il truccatore (o fargli causa, per come l’ha trasformato in un assai poco marziale Bibendum, l’omino di pneumatici Michelin).

Ero – quindi – curioso di constatare come la materia tanto complessa, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, potesse trasformarsi in narrazione filmica.

Attesa che non è andata delusa. Perché l’opera dell’autore, come già in “I Am Not Your Negro”, non ha nulla del plastificato della recente Hollywood o della polvere retrò britishall’inseguimento di lontani trascorsi imperiali.

Questo è un film appassionato su una passione divorante. Una storia che intreccia totale dedizione e arroganza luciferina nel perseguire la causa a cui si è consacrati; quella che era l’essenza effettiva della vita di Marx: la causa dell’emancipazione degli sfruttati, che ha trovato nel nuovo modo di produrre industriale un formidabile punto di appoggio per attivare la leva del cambiamento. Dando uno sbocco politica all’indignazione, trasformata in una potente forza di cambiamento. Di converso un pressante invito a riflettere sulla miseria della critica nell’attuale momento storico.

Sicché solo Roberto Nepoti de la Repubblica può riscontrare un eccesso di pedagogismo in una lettura coinvolta e provocatoria; nel senso che, raccontando lo sforzo sovrumano del ragazzo tedesco per afferrare il bandolo del cambiamento, pone all’oggi tutta una serie di domande ineludibili. Le questioni eluse da una riflessione sempre più flebile innanzi alla normalizzazione promossa dal Pensiero Unico guardiano dell’ordine vigente.

L’abbandono del campo di battaglia, in cui la teoria trasforma le pratiche in strategia, testimoniato da un ripiegamento teorico che avrebbe meritato gli strali irridenti di un Marx sempre beffardo: il commento (marxiano) alla undicesima tesi su Fouerbah “finora i filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di trasformarlo” edulcorato in un più pacioso “ora si tratta di interpretarlo in modo diverso”; nel frattempo, mentre la ristrutturazione plutocratica promuove crescenti disuguaglianze di massa e torna a massacrare il lavoro, il pensoso Axel Honneth propone un velleitario volemose bene all’insegna de «la cooperazione intersoggettiva nel discorso […per cui] il soggetto individuale può compiere le prestazioni riflessive che fanno parte dell’auto determinazione solo collaborando, in un’organizzazione sociale, con altri che compiono reciprocamente lo stesso tipo di prestazioni»[11]. Altro che “la bellezza della lotta”, cara a Engels ma anche a Luigi Einaudi e Piero Gobetti.

Insomma, ne “Il giovane Marx” si ritrovano tutte le sfide concettuali di allora, che l’oggi ripropone con inquietante simmetria: la definizione dei campi antagonistici reali, la costruzione del soggetto conflittuale rispetto alle logiche e alle prassi guardiane dell’ordine proprietario, la ricerca dei punti deboli dell’avversario, l’individuazione di nuovi paradigmi ricostitutivi di legature sociali e alternativi della mattanza che ne ha fatto il quarantennio Neo-Lib, una comunicazione motivante.

Prima di tutto l’antico problema, già presente alle forze del cambiamento al tempo delle rivoluzioni tra il 1789 e il 1848, di rimettere al centro dell’azione militante i fondamenti di una democrazia rettamente intesa.

Per questo lasciamo ad altri l’analisi estetica del materiale filmico, per propugnare – piuttosto – una rinnovata attenzione a quella lettura politica che sembra essere prioritaria negli intenti degli autori.
Un seme che non è certo sia destinato a cadere in terra fertile. Difatti il fatalismo rassegnato e l’indifferenza compiaciuta sono i tratti umorali prevalenti nello spirito di questo nostro tempo. Sicché un messaggio in controtendenza può rivelarsi disturbante. Reazione che risulterebbe vanificante dei suoi effetti motivanti.

Induce a questi pensieri negativi l’esperienza personale di chi scrive, che ha potuto assistere al film il primo giorno di programmazione nella città di Genova, confinato nella saletta di un “film club” e nell’unica proiezione giornaliera. In compagnia di una ventina di altri spettatori, tutti con rade capigliature dal grigio al candido.

Di Pierfranco Pellizzetti

Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/quando-marx-era-un-liberale-note-a-margine-del-recente-biopic-sul-ragazzo-di-treviri/

Foto RETE

NOTE

[1] M. A. Manacorda, Quel vecchio liberale del comunista Karl Marx, prefazione. Aliberti, Reggio Emilia 2012
[2] A. Rosenberg, Democrazia e socialismo, De Donato, Bari 1971 pag. 10
[3] E. J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848/1875, Laterza, Roma/Bari 1976 pag. 11
[4] Ivi pag. 24
[5] S. Petrucciani, “Marx e la critica del Liberalismo”, www.micromega.net 16 ottobre 2015
[6] K. Marx, il Capitale, Newton Compton Editori, Roma 1976 pag.209
[7] S.Petrucciani,cit.
[8] C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, Mondadori, Milano 1982
[9] F. Furet, D. Richet, La rivoluzione francese, Laterza, Roma/Bari 1974 pag. 238
[10] L. Canfora, La democrazia, Laterza, Roma/Bari 2010 pag.259
[11] A. Honnet, Il diritto della libertà, Codice, Torino 2015 pag. 45

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