DOCUMENTI – Della povertà nell’era dell’abbondanza

Secondo gli ultimi dati Istat in Italia nel 2011 l’11,1 per cento delle famiglie si trova in condizione di povertà relativa per un totale di 8,1 milioni di persone, di cui il 5.2% vivono in condizioni di “povertà assoluta” per un totale di 3,4 milioni di persone.   Ancora più grave è la situazione nel Mezzogiorno: quasi una famiglia su quattro vive in condizione di povertà relativa, di cui l’8% in condizioni di povertà assoluta. Le regioni meridionali più colpite sono la Sicilia (27,3%), la Calabria (26.2%), la Campania (25.6%).   Si conferma il fatto che le famiglie più colpite siano le famiglie numerose, con almeno tre figli, che passano in soli due anni (dal 2009 al 2011), dal 37 al 50 per cento. Vale a dire che oggi una famiglia numerosa su due che vive nel Mezzogiorno è relativamente povera!   Non si era mai arrivati a toccare una situazione così grave.

Questi i dati, ma cosa intende l’Istat per povertà assoluta e relativa e come la calcola ? La risposta è semplice : una famiglia viene definita “relativamente” povera quando il suo consumo medio pro-capite mensile è inferiore alla metà del consumo medio pro-capite delle famiglie italiane; mentre una famiglia è in una condizione di povertà assoluta quando il suo consumo medio pro-capite è meno di 1/3 del consumo medio pro-capite nazionale.   Prima di capire che cosa ha determinato la crescita della “povertà” nel Mezzogiorno val la pena soffermarsi su questa categoria.

Keynes

  • La povertà nella/della teoria economica.

Come diceva Keynes, gli uomini del nostro tempo sono spesso schiavi delle idee di qualche economista defunto, sicuramente questo è vero nel caso della teoria maltusiana.   Infatti, a livello dei non addetti ai lavori si è spesso attribuita la povertà all’eccesso di popolazione, al fatto che le famiglie- analfabete e religiose- facessero troppi figli. Quante volte si è detto e scritto che la povertà nel Terzo Mondo, la fame che uccide migliaia di bambini ogni giorno, sia il frutto dell’eccesso di popolazione, la cosiddetta “bomba demografica”! Come è noto, questa era la tesi dell’abate Malthus , il quale riteneva, in base ai dati in suo possesso, che la popolazione stesse crescendo in ragione geometrica, mentre le risorse alimentari crescevano in ragione aritmetica. Risultato: la popolazione raddoppiava ogni venticinque anni.   Se non si fosse fermata la crescita demografica l’umanità sarebbe stata condannata al collasso o alla guerra permanente.  Per questo Malthus attaccò come pochi le leggi sui poveri che davano un sussidio alle famiglie disagiate.   Malgrado vedesse di buon occhio l’aborto e l’infanticidio (memorabili le sue pagine su questa pratica in Cina), non poteva ammetterlo ufficialmente come rappresentante del clero e quindi trovò una soluzione geniale per combattere la povertà: l’astinenza. Sposarsi il più tardi possibile e fare meno figli che si può.   “L’unico modo conforme alle leggi della morale e della religione-argomentava Malthus- per procurare ai poveri la più grande partecipazione ai beni del ricco, senza precipitare nella miseria tutta quanta la società, consiste da parte del povero nella prudenza in tutto ciò che riguarda il matrimonio e nell’economia prima di averlo contratto”[1]

Malthus

Pochi decenni prima, sulla sponda francese, la scuola dei fisiocratici proponeva un altro approccio alla povertà, in particolare delle masse contadine :   <<   Le vessazioni, il basso prezzo delle derrate ed un guadagno insufficiente per stimolarli a lavorare li rendono oziosi , bracconieri , vagabondi e ladri. La povertà forzata non è dunque il mezzo per rendere laboriosi i contadini: non vi è che la proprietà ed il sicuro godimento del guadagno che possano dotarli di coraggio e di attività>> [2]

A circa vent’anni dalla pubblicazione del “Tableau” di Quesnay , esponente prestigioso della scuola fisiocratica, il padre dell’economia politica moderna riprendeva un concetto simile nella sua famosa “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni” :

<< I salari del lavoro sono l’incoraggiamento dell’operosità che, come ogni altra qualità umana, progredisce nella misura in cui riceve un incoraggiamento. Una sussistenza abbondante aumenta la forza fisica del lavoratore, e la confortante speranza di migliorare la propria posizione e di finire forse i propri giorni nell’agio e nell’abbondanza, lo incita ad esercitare al massimo questa forza. Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svelti di quando i salari sono bassi : in Inghilterra per esempio, più che in Scozia, nei dintorni delle grandi città più che nelle zone remote della campagna>>[3]

Secondo Adam Smith per combattere la povertà e l’indigenza bisognava elevare il livello culturale della nazione (con un importante intervento dello Stato per l’istruzione pubblica primaria)[4],ma soprattutto bisognava eliminare le forme di “sfruttamento “ del lavoratore sancite dalla tradizione o dalle leggi. Il nemico fondamentale da battere era- secondo Smith- lo “Statuto dell’apprendistato”, cioè quelle norme corporative che regolavano il lavoro nelle “manifatture” e nei laboratori artigianali: << Non conosco alcuna parola greca o latina che esprima l’idea che noi associamo alla parola “apprendista”, cioè di un servo costretto a lavorare in un dato mestiere per un dato numero di anni a beneficio di un maestro, a condizioni che questo glielo insegni>>.[5]

I bassi salari, la povertà, la miseria hanno comunque per Smith una matrice sociale. La Natura non ha colpa se un uomo è povero o muore di fame. Ma, la sua visione della povertà, così come la sua visione del ruolo dello Stato nel settore dell’istruzione e della lotta ai contratti di lavoro “iniqui”, venne emarginata dal pensiero maltusiano che divenne un forte punto di riferimento di tutto il pensiero dei classici dell’economia politica.   Da Ricardo a Stuart Mill l’idea che la povertà fosse dovuta essenzialmente all’imprevidenza dei poveri, ai loro matrimoni precoci, alla troppa prole che producevano, alla scarsa capacità di fare economia, cioè di risparmiare.   David Ricardo non aveva dubbi in proposito : <<la perniciosa tendenza della legge sui poveri non è mistero, perché è stata pienamente delineata dalla mano esperta del signor Malthus; ed ogni amico dei poveri deve desiderare ardentemente la loro abolizione(…).   Queste leggi hanno reso superfluo ogni freno ed incoraggiato l’imprevidenza, offrendo ad essa una parte dei salari propri della previdenza e dell’operosità>>. [6]   Qualunque tipo di soccorso è abrogato: il dole è un cancro che colpisce l’economia alla radice. Qualunque “vincolo “ deve essere rimosso per il pieno funzionamento del mercato del lavoro: << Come tutti gli altri contratti, i salari dovranno essere lasciati alla determinazione della libera concorrenza del mercato, ed il legislatore non dovrebbe mai interferire>>.[7]

“Può l’economia politica – si domandava J. Stuart Mill – non fare nulla, muovere soltanto obiezioni, e dimostrare che non si può fare niente per combattere la povertà? “ E proponeva una serie di misure quali: a) l’istruzione di massa,; b) l’emigrazione verso le colonie ; c) privatizzare le “terre comuni” per creare una massa di piccoli proprietari. Ma, concludeva, tutte queste misure sarebbero state insufficienti se non fosse intervenuto un radicalemutamento culturale[8] Ed è su questo terreno che J. Stuart Mill scaglia le sue invettive più virulente contro la religione, la morale e la politica che “hanno gareggiato nell’incitare al matrimonio ed alla moltiplicazione della specie, purché col vincolo matrimoniale…Finché il generare numerosa prole non sarà considerato allo stesso modo con cui si considera l’ubriachezza o qualunque altro eccesso fisico, pochi miglioramenti si possono aspettare …”[9]

In breve, anche per le menti più illuminate, la causa della povertà sono i poveri, con la loro dissipatezza, lo scarso senso del risparmio e della previdenza, il loro cedere ad istinti bestiali (procreazione). Sembra di sentire le sentenze della troika (BCE,FMI, Commissione Ue) rispetto ai paesi indebitati del sud Europa. I mass media occidentali hanno dipinto il popolo greco, durante questi anni di crisi finanziaria, come un popolo di fannulloni, che ha dissipato le risorse comunitari, che non ha saputo risparmiare, e –come ha sostenuto più volte la Merkel e C. – gli aiuti alla Grecia fanno solo del male, aggravano la loro situazione, mentre una bella punizione può riportarli ad atteggiamenti virtuosi.  Ieri come oggi, la colpa è sempre dei poveri, che si tratti di eccesso di popolazione o di debito pubblico il capro espiatorio è sempre lo stesso.

Marx

Come è noto, a questa visione del mondo si oppose chiaramente e lucidamente il pensiero di Karl Marx. << Una legge astratta della popolazione esiste soltanto per le piante e per gli animali nella misura in cui l’uomo non interviene portandovi la storia>> (p.82). Con queste lapidarie parole Marx stronca l’approccio degli economisti classici e affronta la questione della povertà all’interno delle dinamiche del modo di produzione capitalistico.  Innanzitutto, Marx distingue tra “pauperismo” e “povertà”.    Il primo, il pauperismo, viene analizzato all’interno della “legge generale dell’accumulazione capitalistica” e definito come “ il sedimento più basso della sovrappopolazione relativa”, composto da tre categorie:

  1. persone capaci di lavorare ma espulse dal processo produttivo (quelli che oggi potrebbero essere i “cassaintegrati”) . La sua massa s’ingrossa ad ogni crisi e diminuisce ad ogni ripresa degli affari;
  2. orfani e figli di poveri ; sono i candidati dell’esercito industriale di riserva che , in epoche di grande slancio (per es. il 1860) vendono arruolati in massa nell’esercito operaio attivo;
  3. gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare. Si tratta specialmente di individui che sono mandati in rovina dalla mancanza di mobilità causata dalla divisione del lavoro, individui che superano l’età normale di un operaio, infine le vittime dell’industria, il cui numero cresce col crescere del macchinario pericoloso.[10]

Se il “pauperismo” costituisce una fascia dell’esercito industriale di riserva , la “povertà” è in Marx una categoria più ampia che va oltre il livello del salario ed il tenore di vita.   “Il concetto di lavoratore libero implica già che egli è povero”. Pertanto, sostiene Marx nei Grundrisse, tutti i lavoratori sono “potenzialmente “poveri”: sia che essi siano esclusi dal processo produttivo, sia che vendano la propria forza-lavoro, essi non hanno i mezzi per “autodeterminare” la soddisfazione dei propri bisogni, essi non possono che vivere in funzione del processo di “auto valorizzazione del capitale” [11])

Questo non significa che i lavoratori siano rimasti a guardare, a piangersi addosso. Le loro lotte hanno, a partire dalla prima metà dell’800, determinato una serie di interventi dello Stato a tutela dei loro diritti, a sostegno dei più poveri, handicappati, svantaggiati e disoccupati. La nascita del Welfare State è il frutto di queste lotte che hanno attraversato due secoli e che oggi sono messe seriamente in discussione, tentando di riportare indietro le lancette della storia.

(Continua)

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Di Tonino Perna

Foto RETE

Fonte: http://www.osservatoriodelsud.it/2018/05/23/della-poverta-nellera-dellabbondanza-caso-del-mezzogiorno/

Una rivista da leggere e far conoscere

NOTE

[1] Cfr. T.R.. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, Utet, Torino, 1965, pag 323

[2] Vedi F. Quesnay, Il “Tableau économique” ed altri scritti di economia, Isedi, Milano, 1973, p. 37

[3] Cfr. A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973 (ed. or.

[4] <<Con una spesa molto piccola lo Stato può facilitare, incoraggiare ed anche imporre a quasi tutta la massa del popolo la necessità di apprendere le parti più essenziali dell’educazione>> , A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle Nazioni, Isedi, Milano, 1973, p. 772

[5] Ibidem, p. 122

[6] Cfr   D. Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, Isedi, Milano, 1976, pp. 70-71

[7] Ibidem pag. 70

[8] Cfr. J. Stuart Mill, Principi di economia politica, Utet, Torino, 1953, pp.350-52

[9] Ibidem pag. 355

[10] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro primo3, cap. XXIII°, Ed. Riuniti, Roma, 1956, pp 94-95

[11] Cfr. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II° p. 268

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