Chi era James Hillman?

 

Lo psicoanalista che ha allargato l’orizzonte della psicoanalisi al di là della condizione e della sorte dell’anima individuale, partendo dalla persuasione, che quella che oggi va curata è, come lui la chiamava: l'”anima mundi” che ha perso il mondo immaginale, per raccogliersi nel chiuso di una ragione solo concettuale, dove non è più possibile rintracciare quella capacità immaginativa del cuore che sa che cos’è l’amore, la bellezza, la giustizia, e quella verità interiore di cui abbiamo perso sia l’origine, sia la traccia.

Esiste certo un malessere dell’individuo, ma le sue radici oggi non vanno cercate tanto nella sua infanzia, che induce spesso una condizione solipsistica e impotente di sé, ma nel modo con cui l’individuo interiorizza la società in cui vive, le sue forme di potere, la conflittualità che la percorre, l’habitat che lo circonda perché, scrive Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante». E allora cos’è quel Terribile amore per la guerra (Adelphi) che aveva reso così inquietante la corrispondenza tra Freud e Einstein? Cosa sono quelle Forme del potere (Garzanti) che fanno smarrire a ciascuno di noi la nozione di “cittadino”, che sempre più maschera la nostra condizione di impotenza? Che ne è de La forza del carattere (Adelphi) che rischiamo di conoscere solo nella vecchiaia, quando più nessuno si occupa di noi e, riflettendo, ci accorgiamo che di noi ci si occupava solo a partire dalla nostra efficienza e produttività: puri funzionari d’apparato senz’anima.

E l‘ Anima (Adelphi), questa parola intorno a cui ruota tutta la riflessione hillmaniana, nulla ha a che fare con sfondi religiosi e neppure con il dualismo platonico e il suo bimillenario conflitto col corpo. L'”anima” di Hillman non è neppure solo la controparte sessuale di ciascun di noi come il suo maestro Jung aveva insegnato, ma è, come lui scrive, quella «fede nelle immagini e nel pensiero del cuore che porta a un’animazione nel mondo. Anima crea attaccamenti e legami. […] Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto il mio lavoro».

Se la società, nel modo con cui è strutturata e nelle modalità con cui fa vivere gli individui è, più dell’infanzia, la responsabile della sofferenza di cui si occupa Il mito dell’analisi (Adelphi) è perché la nostra società non ha più anima, più non conosce le relazioni tra gli uomini, se non come relazioni di interessi e di profitto, più non si commuove per il dolore del mondo, più non sa immaginare tutto ciò che non rientra nella concettualità, nella funzionalità e nel calcolo delle utilità, in cui ciascun individuo è costretto a vivere, smarrendo quel pensiero del cuore, come scrive Hillman ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore (Adelphi), di cui erano capaci i Greci che pensavano col cuore.

J. Hillman

Di qui il recupero hillmaniano della mitologia greca non per un intento filologico o erudito, ma per mostrare come “si pensa col cuore”, quindi non per concetti, ma per immagini. Apprendiamo così dal suo Saggio su Pan (Adelphi) cos’è il panico, la masturbazione, l’incubo, la seduzione delle ninfe, così come da La giustizia di Afrodite (Edizioni La Conchiglia) apprendiamo come inscindibile sia la bellezza dalla bontà e dalla verità. Concetti che la cultura cristiana ha separato, mentre il mito e la filosofia greca tenevano ben saldi nella parola kalokagathon, bello e buono insieme.

Perché la “vera” bellezza è nella bontà che trasfigura il volto e rende lo sguardo sereno. In gioco qui non c’è la verità concettuale della scienza o della filosofia e ancor meno quella dogmatica delle religioni, ma quell’essere pervenuti alla conoscenza di sé, a cui invitava l’oracolo di Delphi, perché in ciascuno si creasse quell’armonia interiore in cui si radica bellezza.

Ma siccome per il Greco antico la bellezza individuale non è raggiungibile senza una Politica della bellezza (Edizioni Moretti & Vitali), di nuovo ritorna il motivo che solo una società ben governata può ridurre la sofferenza di tanti individui. Ma perché questo ritorno alla Grecità, già percorso da Hölderlin, Nietzsche, Heidegger? Non per motivi poetici o filosofici, ma per resuscitare quel politeismo della mitologia greca che, a differenza del modello monocentrico della cultura giudaico-cristiana che tanto ha influenzato la psicoanalisi di Freud, consente di recuperare quella dimensione policentrica, così essenziale oggi, dove la confluenza delle culture chiede una disposizione dell’anima che consenta quella tolleranza e quell’accoglienza che solo il relativismo, di cui le religioni sono incapaci, sa concedere. «Gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo» scrive Nietzsche. Hillman non raccoglie sarcasticamente e neppure polemicamente questo riso, ma ci propone tutti gli dèi, celesti e inferi, non come semplici espressioni delle passioni umane e quindi iscritte nella “patologia” («Gli dèi sono diventati malattie» ebbe a scrivere Jung), ma per restituirli alla “mitologia”, dove nessun dio vuol essere il solo, perché, nonostante La vana fuga dagli déi (Adelphi) propria dell’Occidente cristiano, indispensabili sono le figure mitologiche in cui l’anima può rispecchiarsi e, rispecchiandosi, avere un’immagine di sé, per non vivere alla cieca, a propria insaputa.

Non si legga Hillman solo per la potente seduttività della sua scrittura. A percorrerla per intero c’è una radicale revisione dello scenario psicoanalitico, a partire dalla persuasione che, se l’uomo è un animale sociale, non c’è sofferenza individuale disgiunta dal mondo in cui si vive. Ed è su questo mondo e sulla sua anima che Hillman ha puntato il suo sguardo lucido e critico.

UMBERTO GALIMBERTI

Fonte: https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/10/28/james-hillman-dallanalisi-di-jung-ai-miti.html

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