4 novembre

 

 

Per ricordare i tanti a cui la guerra ha rubato la vita, riporto un brano di “Vent’anni”, di Corrado Alvaro, sottotenente di fanteria nella Grande guerra, ferito alle braccia nel 1915, al Monte Sei Busi sul Carso.

IL FRONTE

Per chi lo aveva conosciuto prima, il fronte faceva più rumore, non altrimenti che una cascata d’acqua, magra d’estate, d’autunno strepita piena; e come su una corrente impetuosa, sul flutto perpetuo del fuoco, gli uomini erano trascinati via, portati alla deriva, e nuovi uomini vi si trovavano impigliati a loro insaputa. Come in ogni cosa definitiva della vita, era difficile avvertire il trapasso, da questa plaga dove la battaglia rumoreggiava col fragore degli incendii, all’altra dove l’uomo faceva perpetuamente gli stessi atti, cadere e rialzarsi, andare avanti e indietro, appiattarsi e risuscitare, e non sentiva più che una pallottola che lo andava cercando, come se portasse inciso il suo nome. Giù la testa, ventre a terra, avanti, indietro, erano gli eterni ammonimenti ripetuti in tutti i toni.

Cominciò, appunto come una corrente in una giornata di pioggia, a scaricarsi, attraverso il vallone che scendeva dalla linea alla pianura, il viavai dei feriti. Era vero che ogni compagnia aveva i suoi portaferiti, otto o dieci per ogni trecento uomini, ma questi nuclei erano scomparsi, fusi nella grande massa degli uomini che combattevano, ogni soldato era combattente e infermiere, e si era stabilita una tacita solidarietà per cui quelli che rimanevano nelle seconde linee soccorrevano coloro che pervenivano dalle prime. Ma quelli che potevano, e anche quelli che non potevano, si trascinavano da sé fuori della zona del fuoco, ognuno con le sue piaghe brucianti, stupiti del loro stesso sangue, come bambini che si sono fatti male, e, non avendo nessuna nozione del corpo umano, guardano la goccia di sangue che sprizza da un dito, come se vi dovessero veder uscire il loro cuoricino. Altri erano poi portati sulle spalle dai loro compagni, dagli amici fedeli, dal vicino di linea, da un ferito men grave che dovesse riprendere la via del ritorno. Non si sentiva un lamento, non un grido. Le ferite non bruciavano ancora, non si era avvertita che una piccola scossa, come se una ruota si fosse rotta in qualche parte, non si sapeva dove, del misterioso corpo umano che in quel luogo era cosa prodigiosa e fragile.

Questa vicenda d’uomini dagli occhi di animali sofferenti, in cui il dolore è qualche cosa di assai più grande di loro, e come il tocco di una mano divina, il risveglio a qualcosa di superiore, scendeva in fila indiana, l’uniforme atteggiata nei modi più bizzarri, dagli strappi, dagli adattamenti, dai rimedii, anche dai fantasiosi ornamenti, e si destavano in loro i bisogni primitivi dei trofei e degli amuleti, come ne sa suggerire l’imminenza del pericolo e della morte. Sembrava la variopinta schiera d’un esercito primitivo, abbigliata in costume, e in questi costumi, eterni come la storia delle guerre, ognuno portava, fermandosi davanti alla casupola dell’ospedaletto da campo, la sua ferita come un dono. Lo strano presepe. Uno portava sulla mano aperta la piaga d’una pallottola esplosiva che gli aveva trasformate le dita, tenute a pochi filamenti muscolari, nella corolla d’un maligno fiore tropicale, un altro aveva una lucente scheggia, che pareva d’argento, conficcata nell’orecchia, un altro aveva sentito entrare una pallottola in qualche parte del petto, e non sapeva di dove fosse uscita. Mendicanti alle soglie d’una chiesa rustica, ora siedevano, quelli che potevano, pazientemente in terra, aspettando il turno, guardandosi la piaga con la fissità d’uno che ha ricevuto un dono di cui non conosce il valore. Aspettavano, zitti; ma poi, entrando fra quattro mura, sembrava che, varcando le soglie d’una casa, le stesse pareti suggerissero l’idea del dolore, come se lo si imbattesse annidato nelle case degli uomini, sentimenti rimasti attaccati alle pareti, agli angoli bui, al focolare, al posto dove il letto d’un tempo aveva lasciato una striscia bruna lungo il muro. Là dentro, come tra un gregge al chiuso, c’era un plorare e un chiamare, in cento dialetti, in mille intonazioni, e chi piangeva come un fanciullo o chi minacciava qualche cosa d’invisibile, forse il suo stesso dolore, e chi parlava parlava come un bambino che spiccica le parole. Nei giacigli finitimi si discorreva, e senza guardarsi (oh, impressione della voce umana, da un letto vicino dove c’è uno che forse non si leverà più) e si domandavano chi fossero. E, anche, di dove fossero. Ed ecco che un infermiere, l’unico infermiere, passava con un taccuino fra quei giacigli, domandava: Come ti chiami, di dove, e come si chiama tuo padre. Quasi che quest’appello, e il nome detto forte, come davanti a uno che distribuisse la sorte, fosse un richiamo alla vita, cessavano le grida, e dai giacigli dove le voci erano più fioche e da quelli dove c’era un delirio loquace, proprio di certi feriti, s’invocava: “A me il nome, a me! ” E come parlavano ! Alcuni buttavano parole e sangue in un delirio alto e felice, parlavano col vicino, con l’infermiere, interpellavano il medico dandogli del tu, dicevano cose insensate e lontane. “Anche a me il nome; perché non mi chiedi il mio nome? ” gridava un ufficiale a metà levato, come se fosse stato dimenticato. Ma l’infermiere, col tono di chi fa un complimento, di chi parla a un gran signore che ha ancora da spendere, mormorò: “A lei è inutile domandare il nome, perché lei vivrà.” E tuttavia quelli che non erano interrogati rimanevano delusi, come se non si volesse saperne di loro, di segnarli in un libro che, chi lo sa perché, sembrava assai importante. Fabio aveva allontanato i suoi soldati da quello spettacolo; due fitte ali d’uomini avevano assistito sulle prime a quel pellegrinaggio, e le domande che si incrociavano erano queste: “Sono andati avanti?” Ma nessuno di quelli che tornavano lo sapeva. Per i soldati sulla linea del fuoco, avanti e indietro sono concetti che non esistono; esiste soltanto l’idea del movimento.

Il pellegrinaggio era stato pieno come il torrente rovinoso nato dalle grandi piogge in montagna, e in qualche punto aveva addirittura ostruito il vallone col corteo dei feriti più gravi che si trascinavano sui gomiti o sulle ginocchia.

 

“Vent’anni” è un romanzo ambientato durante la Grande guerra. Bello e intenso, aiuta a cogliere le mille sofferenze, gli sconvolgimenti che l’esperienza bellica infligge ad una generazione di giovani.

Foto:  seduto in prima fila Attlio  Leone in Africa 1937

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