La triste storia di zio Clemente

Dopo la cinquantina, un male ogni mattina, dice il proverbio: l’asma, i dolori, la sordità, lo svigorimento del corpo, i denti caduti, la mezza luce degli occhi, e tutto lo scelerato corredo della vecchiaia. E allora il povero vecchio, giallo come una cartapecora, ramminchionito, smemorato, duro di orecchie, mezzo cieco, inetto a masticare, curvo come un liuto, posto in beffa dagli stessi parenti, non si muove più dalla casetta, dove per carità è sopportato da una figlia o da un figlio.

Oh se in illo tempore conoscevate lo zio Clemente! Con quel berretto di cotone, che gli pendeva alla sgherra sino alle reni; con quella cacciatora verde bottiglia, con quel corpetto a tre fila di bottoni, che lucevano come specchi; con quei paracalci(1) mafiosi; con quella fascia rossa, che, recingendogli i fianchi, terminava in un fiocco… oh se lo vedevate! Biondo, alto, sereno, forte come un toro. dritto come un fuso, zazzaruto come un Re carolingio!

Beati quei giorni! Le donne se lo mangiavan con gli occhi, e avrebber voluto rubarselo; ed ei, per farle tutte contente, a quale dava una manata sulla parte più soda, a quale dava un pizzicotto che la rendeva beata; e chi tirava pel ganascino, e chi rallietava con un parola, o con un sorriso in cui si erano accovacciati tutti i diavoli della carne. Ed esse, ed esse allora!… Oh se io vedevate con quella lettiga verniciata a ceruleo, con quei tre muli come tre montagne, con quella filza di sonagli, che si sentivano un miglio lontano, arrampicarsi sui picchi dove stavano a disagio le capre, scendere in quei valloni, lubrici di acqua e di ghiaia, internarsi in quei boschi, paurosi pei ricordi di Salta le viti, e di Testalonga!(2) Ed era sempre in continuo moto, perchè la sua lettiga era la più bella della Contea: da Modica a Palermo, da Modica a Trapani, da Modica a Castrogiovanni, da Modica a Messina. E sempre contento, e sempre spendereccio, e sempre col fiasco alla bocca, e sempre con la barzelletta sul labbro, e con la lussuria negli occhi, e con l’aria di me ne impipo!..,. E che festa quando giungeva in qualche fondaco!(3) Che affaccendarsi di quelle fondacaie, e di quelle servotte! Che allegre sbevazzate!… perché lo zio Clemente era un vero Pascià; un maomettano sino al midollo dell’osso.

Ma il tempo non volge sempre sereno. Il nostro lettighiero avea la smania di conoscere… gli altrui godimenti: ma ci sono mariti e mariti; e ce ne fu uno che gli avvelenò i tre muli con vendetta selvaggia, ma non già rara in Sicilia. Il colpo fu terribile: era la povertà per lo zio Clemente, perchè non possono prendersi a credito tre muli da lettiga; ed altronde le vie a ruota cominciavano a rendere meno frequente il viaggiare in quel modo.

Povero zio Clemente! Depose la verga di lettighiero, e si allogò per arare, per zappare, per mietere, per batacchiare le ulive. Poi venne una lunga malattia; poi vennero gli anni… Ed ora, vedetelo lì, seduto sul gradino dell’uscio, a riscalducciarsi come i gatti al sole di maggio; vedetelo lì, occupato da mane a sera a snocciolare rosarii, e intrecciare corda di palma nana; ma quel lavoro gli apre a stento la bocca, sicchè ben tosto riesce di fastidio al figlio che lo ricovera, e principalmente alla nuora. Il figlio sulle prime sopporta, poi brontola, poi gli fa gli occhi da basilisco. I nipotini gli fan le boccacce, e lo chiamano il nonno pidocchio, il nonno lanterna,(4) il nonno chitarrone, il nonno porco, e altri nonni su questo vezzo. Ma codesti dispetti son ben poca cosa, in confronto a quei della nuora. L’amare una persona come il fumo negli occhi, come un cane in chiesa, come l’incontro di un jettatore o di un usuraio cui dovete danaro, son paragoni usati da migliaia, e a rigore dovrei scartarli per non ripeter vecchiumi; ma li adopero perchè non saprei trovarne di più efficaci per significare il dispetto, il fastidio, l’umor nero della gnora Rosa di avere in casa quel povero zio Clemente, che pure era il padre di suo marito.

Quando allo scocco di mezzogiorno, e dell’avemaria della sera ella gli dava una crosta, o una cucchiaiata di fave, con quel garbo come si gitterebbero a un cane, non cessava mai dal ripetergli:

— Colpa vostra! Non meritate rimpianti. Quando avevate la lettiga perchè vi lasciaste raggirare dalle male cristiane, che vi spolparono sino all’osso? Se aveste avuto timore di Dio, i tre muli non ve li avrebbero avvelenati. Non ci credevate che la vecchiaia arriva per tutti? Ed ora vorreste vivere a spese del figlio? Vi pare forse che il pane ci caschi dal cielo?

E il povero vecchio, che in gioventù avea avuta una forza di toro, e che tuttora con quel rimasuglio che gliene restava nei polsi, avrebbe potuto schiacciare la nuora, schizzava fiamme dagli occhi; ma poi il senso religioso, e il ricordo dell’avvilimento presente prendevano il sopravento: baciava la medaglietta del rosario, chinava il capo, e la raccomandava al Signore.

Ogni menomo fatto, ogni inezia divenivan pretesto per la gnora Rosa di fieri rimproveri al vecchio. Se ella nel ravviarsi i capelli neri e cresputi rompea un dente del pettine; se la minestra sapea di bruciato: se crepava al fuoco una pentola; se qualcuno dei suoi bimbi era ammalato, borbottava da mane a sera:

— Ma già!… Ma non poteva fallire! È venuto quel vecchio, ed è entrata la scomunica in casa mia. Ma già!… Un peccatore di quella fatta!… Un giorno o l’altro dovremo aspettarci che ci crolli il tetto sul capo!

Un giorno le morì una gallina. Ira di Dio! Se le fosse morta una figlia non avrebbe fatto di peggio. Per una settimana intera non cessò dal gridare:

— Ecco qui: muoiono quelli che sono utili, quelli che recano pane alla casa; e quei che son la ruina delle famiglie, quelli non muoiono mai! quelli fan le corna alla morte!…

E il povero vecchio rispondea pietosamente:

— Ma che volete che faccia? Posso buttarmi vivo nella sepoltura? Posso scannarmi con le mie mani?

Un altro giorno l’infelice schiacciò per inavvertenza un pulcino. La nuora, divenuta una furia, si slanciò per cavargli gli occhi con le unghie; ma si trattenne a tempo, dicendogli:

— Puh! Sputato per cent’anni!… Se non vi cavo gli occhi, non è per voi, vecchio infame… è per l’occhio del mondo. Ma che? Questo vecchio infernale ha dunque messe le radici in mia casa? E che? non c’è nessuno che me lo tolga d’innanzi?

E gli diede un tal urto, che lo fe’ vacillare.

Il vecchio, cui ardea l’inferno negli occhi, brandì la forcella, ma ne ebbe spavento, e la gittò via con violenza. Poi si buttò in ginocchio innanzi il Crocifisso del capezzale, e pregò a voce rauca, e quasi fischiante:

— Signore, liberatemi dalle tentazioni!… Signore, trattenete la vostra santa mano su me!… Signore, Signore! chiamatemi a voi, o datemi maggiore pazienza. Io bastonato? Io sputato? Ma anche voi, Gesù mio, foste flagellato e sputato! O Signore, o Signore Dio! vi offro questa umiliazione in penitenza dei miei peccati.

Era così terribile l’aspetto di lui, che la nuora ne ebbe timore, e per parecchi giorni non ardì molestarlo; ma instigava notte e giorno il marito a cacciarlo di casa. Picchia oggi, picchia domani, il figlio finalmente gli disse:

— Padre mio, la febbre continua ammazza il malato. Se l’uomo mangiasse una volta la settimana, pazienza!, ma io non posso darvi Il pane ogni giorno, e levarlo di bocca ai miei figli. Cercate di industriarvi alla meglio.

E la nuora, riprendendo coraggio, replicò bruscamente:

— Che ci fate quì in casa nostra? Si ha da dirvelo con le mazze, che non vogliamo saperne di voi? Andate, andate da quell’ubbriaca di vostra figlia.

Lo zio Clemente divenne di un rosso apoplettico, poi chinò dolorosamente la testa, dicendo: Sia fatta la volontà di Dio! E senza dir motto, prende la giucca vecchia, la vecchia bisaccia, che gli serve di coltre, la vecchia scodella in cui mangia, la forcella su cui si appoggia, e va in casa della figliuola. E la figlia, vedendolo venire con armi e bagaglio gli grida:

— E che? La svergognata di vostra nuora vi ha forse cacciato di casa? Quando le regalevate ad una ad una tutte le coltri della sant’anima di mia madre, le quali spettavano a me, allora sì che vi facea le moine! Ed ora che siete come il finocchio di S. Giovanni, la trista femmina vi caccia a colpi di scopa? Io posso darvi il luogo per ricoverarvi: un angolo della grotta, ma pel mangiare dovete pensarci voi stesso. Se avessi quel tanto che i protettori pelosi… regalano a quella zingara di vostra nuora, vorrei nutrirvi a galletti e a piccioni… ma io non ho protettori… né posso nè so far miracoli. Ho cinque figli, e il marito che sei mesi l’anno è malato. Bella scelta che avete fatto! Mi mancavan forse partiti?

La casuccia della figliuola, come la maggior parte delle case contadinesche nei nostri paesi montuosi, consisteva in un’ampiastanza, alla quale facea appendice una grotta buia, umida, angusta, e nondimeno caldissima. Era quella dalla sera del sabato all’alba del lunedì l’abitazione temporanea del cane e dell’asino; ma era nel tempo istesso l’abitazione permanente e legale di quattro galline, di un gallo, di una troia(5), di una tartaruga, e di una coppia di conigli domestici che facean figli ogni mese. E quasi ciò fosse poco, a non parlare dei milioni di mosche, di zanzare, di pollini e di altri insetti più sozzi, parecchie nidiate di topi uscivano a processione ogni notte dai buchi e dal pattume del pavimento.

Il povero zio Clemente si corca sopra una specie di canapè di pietra, che in dialetto denominiamo ticcèna, e ha la bisaccia per materassa, e la giucca per coltre. Egli, a dir vero, si cura pochissimo dei caldi diluvi tramandati da tanta varietà di escrementi, da tanta miscela di calori, e da tanto lezzo d’insetti: che diavolo! sarebbe bella che i villani si curasser di siffatte bazzecole! ma la vita che vi mena è vita d’inferno. Per quanta è lunga la notte lo sventurato non fa che battere e ribattere la forcella sulla ticcèna per iscacciare i sorci che gli mordon le gambe: ed è scena tristissima udire quella sua tosse catarrosa e quel continuo battere di forcella. Non pertanto la prima e la seconda settimana passarono come Dio volle, con un po’ di mala cera da parte del genero, con un po’ di brontolio da parte della figlia, ma via, non l’andava proprio maluccio. Al finire del mese la faccenda per altro non andò così schietta, perchè la figlia, che avea il pensiero sul labbro non potè ristarsi dal dirgli:

— Ma insomma, padre mio, proprio non volete metterci un dito? Ho la figlia grandetta, ed è tutta stracci ed untume; ho il figliolino che oramai ha dodici anni, ed è senza scarpe. Non è possibile che mantenga anche voi. Perchè non fate come gli altri a buscarvi il pane con l’elemosina?

Lo zio Clemente si fa scuro in volto, ma la figlia rincalza: — Avreste forse vergogna? Eh via! siete il papa o il principe di Butera? Quando non si può lavorare, è Gesù Cristo che comanda di chieder l’elemosina.

(Prima parte)

Da LE PARITA’ E LE STORIE MORALI DEI NOSTRI VILLANI , di Serafino Amabile Guastella – Bur

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