II mito come paradigma negativo della polis e riti svincolati dai miti

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Con il culto la città aveva posto al centro dei propri interessi anche la tradizione mitica, sulla cui ortodossia vigilava. Scandito dalle varianti, il racconto mitico era in Grecia la «parola creatrice e fondante» ed è stato una sorta di filo conduttore che ha accompagnato e guidato tutta la cultura greca. Nemmeno l’oratoria attica se ne affrancò mai completamente, benché abbia contribuito non poco a orientare la misura e la capacità di giudizio dei Greci, staccandoli progressivamente dalle categorie mitiche. Arche e telos, principio e fine della tragedia secondo Aristotele, il mito era un modo per rappresentare il mondo come realtà immutabile e immutata dopo le azioni degli dei e degli eroi. L’uomo, a cui quella realtà era stata consegnata, restava in ogni caso escluso dal di scorso mitico. Solo in qualche tradizione locale v’è traccia di un’antropogonia e se di un’origine si parla, questa è quella dei gene,non dell’umanità, ovvero è l’atto di fondazione delle città una volta che queste si sono sostituite alle famiglie aristocratiche. Adottato e reinterpretato dalla polis, il mito diventa un paradigma negativo il cui positivo è lo stesso universo cittadino, garantito dalla lontananza di spazio e tempo. Frutto della parola, racconto costruito con arte, dotato di una forma e riprodotto da pochi specialisti, il mito conosce una ritualizzazione nel momento della recitazione, limitata alle occasioni previste dal calendario festivo.

II rito sempre più svincolato dal mito

All’atto rituale era invece consegnata l’azione «religiosa » dell’uomo, un’azione che però era stata quella dei gene prima e della città poi. Dal rito dipendevano la conservazione del presente e la soluzione, nel segno della stabilità, delle ricorrenti e periodiche crisi che potevano minacciare la comunità cittadina. Esso circoscriveva ulteriormente il campo d’azione di dei ed eroi nella misura in cui ne escludeva o ne orientava l’intervento. Nei diversi termini che lo designavano, òrgia, hierourgìa, dròmena e drama,l’atto rituale si qualificava come azione squisitamente umana finalizzata a confermare e contemporaneamente a costruire la collettività civica. In questo modo, però, esso si esauriva nello spazio e nel tempo della sua esecuzione, dissociandosi dal mito che, orientato a consolidare l’immutabilità di un passato trascorso e irripetibile, diventava sempre più autonomo.

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I sacrifici animali

In Grecia come altrove l’atto rituale trova il suo momento eccellente nel sacrificio cruento, che resta comunque una parte del rito, anche se la più importante e significativa. L’animale sacrificale per eccellenza era il bue, ma anche altri animali come maiali, capre e pecore erano frequentemente sacrificati. Se destinata ai morti, agli eroi ed alle divinità infere, la vittima era per lo più interamente bruciata: era l’enàgisma, che trascinava con sé l’idea di contaminazione. Thysìa era invece il sacrificio per gli dei olimpi. Anche le vittime concorrevano a distinguere i destinatari, perché erano a manto scuro per gli dei inferi, gli eroi e i defunti, chiaro per gli dei olimpi. Definivano poi le dimensioni cultuali di dei ed eroi anche i luoghi deputati all’operazione e le forme degli altari che vi si trovavano: per gli dei un bomòs, alto e in pietra, negli spazi antistanti i templi; per gli eroi una eschàra, bassa, o un bòthrhos, fossa sacrificale, nei pressi della tomba. Nella realtà, però, questa distinzione non era sempre rispettata, che ricorrevano banchetti sacrificali nel culto degli eroi, dei morti e degli dei inferi ed enàgisma per Era o per Zeus.

Il sacrificio per gli dei olimpi

Il sacrificio olimpico, thysìa,costituiva ad ogni modo l’atto religioso più significativo per la società greca. Una processione conduceva l’animale davanti all’altare, preceduta da una fanciulla vergine che portava un canestro in cui, celato da pani, focacce e cereali, si trovava il coltello sacrificale, màchaira.Dopo le invocazioni e le preghiere, gettati dei chicchi di cereali verso l’altare e la vittima, l’officiante tagliava un ciuffo di peli dalla testa dell’animale, che allora poteva essere sgozzato. Dopo che il sangue era stato raccolto in un catino e spruzzato sull’altare, si procedeva allo squartamento. La carne, fatta a pezzi e bollita, era distribuita tra i partecipanti e per lo più consumata sul posto, mentre i visceri nobili, splànchna, erano grigliati; le ossa, avvolte nel grasso, insieme al quale costituivano le parti non commestibili, erano bruciate sull’altare in onore della divinità. Il sacrificio era il momento d’incontro tra gli esseri extra-umani e il mondo degli uomini, ma contemporaneamente ne riproduceva la separazione sancita nel tempo del mito dal banchetto sacrificale preparato da Prometeo.

Prometeo

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La spartizione sacrificale: gerarchia cosmica…

Quasi a porre fine a una non ben chiara contesa tra gli uomini e gli dei, la spartizione delle carni, compiuta da Prometeo, aveva prodotto una gerarchia cosmica, in cui mondo divino ed umano erano venuti a collocarsi su piani diversi e incommensurabili. Contemporaneamente esso aveva anche stabilito i regimi alimentari che da quel tempo dovevano caratterizzare comunità umana e divina. In questo modo la deperibilità dei visceri e delle carni, destinati agli esseri umani e celati nel ventre, gastèr, del bue come in un sacco, si associava alla loro mortalità, mentre il fumo delle ossa e del grasso dell’animale, riservato agli dei, si accompagnava alla loro immortalità. Questa separazione, però, frutto dell’inganno di Prometeo, che aveva destinato agli dei le ossa celate sotto il grasso lucente, si era tradotta in un «male» per gli uomini, ordito da Zeus, quale sanzione definitiva della condizione umana. Spartizione primordiale che fissava le forme del mondo, rappresentate dagli dei, e nello stesso tempo definiva lo spazio umano, il sacrificio di Prometeo era certamente un atto cosmogonico. Esso trova un parallelo in un racconto babilonese, dove Marduk edifica il mondo con le parti del corpo di Tiamat, dopo averla uccisa e fatta a pezzi, ma anche nel sacrificio di Purusa, gigantesco protoindividuo immolato dagli stessi dei nella tradizione dell’India vedica, le cui membra hanno dato origine alle parti costitutive dell’universo.

AGRIGENTO: Tempio della Concordia

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… e gerarchia sociale

Ammesso ora che in Grecia il sacrificio replicasse l’atto cosmogonico descritto nel mito di Prometeo, esso necessariamente riproduceva la separazione tra dei e uomini, che ne era scaturita. Così, benché compiuto per placare gli dei, l’atto sacrificale li allontanava. Gli uomini, invece, consumando le parti della vittima loro assegnate, confermavano e riconoscevano il legame sociale che li univa e che si rifletteva nell’unicità della vittima; un legame che si rafforzava anche con l’obbligo di consumare la carne entro i commi della città. Nello stesso tempo, però, la spartizione qualitativa e quantitativa delle carni tra i commensali rispecchiava una gerarchia riconosciuta e ripeteva l’articolazione delle componenti sociali. Già nella tradizione omerica la distribuzione delle parti della vittima serviva a riconoscere il rango dei partecipanti, ma nella polis essa riproduceva e sanciva il ruolo sociale come la funzione dei destinatari. Alle grigliate comuni, infatti, erano di norma sottratti alcuni dei visceri, come i reni, che avevano valore onorifico. La pelle, poi, spettava regolarmente al sacerdote o al tempio, mentre parti specifiche di carne, come le cosce, erano assegnate ai magistrati ed allo hierèus. Solo nei sacrifici ad Estia, invece, era d’obbligo mangiare in porzioni uguali attorno al tempio della dea, rinnovando così l’uguaglianza dei cittadini e la coesione del corpo sociale di fronte al focolare comune. Nel complesso chiuso e autonomo delle città il sacrificio si situa in questo modo ambiguamente tra l’unità ideale della polis, per la quale si sacrifica, simbolicamente rappresentata dalla totalità della vittima, e la gerarchia sociale.

Abolizione ritualizzata e provvisoria delle differenze interne della società, riproposte tuttavia nel momento della distribuzione delle porzioni; pratica alimentare caratterizzata dall’evento eccezionale del rito, il sacrificio era l’unico momento istituzionale in cui era consentito consumare la carne, mentre permetteva ai Greci di consolidare l’ordine del loro cosmo. Mangiare carne al di fuori delle occasioni ritualmente previste era un’infrazione del codice di comportamento e una minaccia all’ordine costituito.

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Aspetto cruento del sacrificio e senso di colpa

Forse questa limitazione al consumo di carne, come l’assenso dell’animale al proprio sacrificio, ritualmente richiesto e artificialmente ottenuto spruzzandolo d’acqua durante la lavanda collettiva delle mani o collocando semi di cereali sull’altare per invitarlo ad abbassare la testa, adombravano l’affiorare di un senso di colpa di fronte all’uccisione violenta, della quale peraltro non parla nemmeno Esiodo, quando descrive la spartizione compiuta da Prometeo. È tuttavia un senso di colpa che le disposizioni ufficiali delle città greche, relative all’atto sacrificale, non lasciano trasparire. Nondimeno proprio queste ambiguità, insieme all’aspetto cruento del sacrificio, favorirono probabilmente le critiche e l’ostilità di quanti, come orfici e pitagorici, non si volevano riconoscere nel sistema ideologico della città.

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Da “STORIA DELLE RELIGIONI”, Biblioteca di Repubblica

Foto: Rete

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