Il culto di Iside

Iside accompagna Nefertari, XIII sec. a.C.

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Quando Erodoto (V secolo a.C.), curioso osservatore di usi e costumi dei popoli barbari, nota che «non tutti gli egiziani onorano allo stesso modo gli stessi dei, tranne Iside e Osiride, che dicono essere Dioniso; questi invece tutti senza distinzione li venerano», lo storico prende atto di una situazione già consolidata, frutto di un’evoluzione millenaria. Nel variegato scenario della vita religiosa egiziana, caratterizzata da una miriade di figure divine e di culti locali, la coppia costituita da Iside e Osiride ha acquistato ormai un rilievo pan-egiziano, al di là del tipico particolarismo di quello scenario. La triplice connessione del culto isiaco e osirico con l’ideologia faraonica, con le pratiche funerarie e con l’escatologia, e insieme con la promozione della fecondità agraria, motiva il ruolo centrale assunto da esso all’interno della religione egiziana. Se alla luce dell’interpretazione greca Osiride si configura come equivalente a Dioniso, certo in forza delle valenze ctonie e vegetali ma ancor più di quelle sofferenze che ne qualificano la vicenda mitica e sono evocati nella prassi rituale, Iside è assimilata, ancora in Erodoto, a Demetra. Tale assimilazione, peraltro, non ricopre che uno degli aspetti della personalità della dea, quello legato alla sfera della fecondità. In età ellenistica, parallelamente ad una sempre più ampia diffusione del suo culto, attestato nei maggiori centri dell’Asia Minore, delle isole dell’Egeo, della Grecia continentale e, in Occidente, in Sicilia e in Italia meridionale, dove Ercolano e Pompei ne hanno dato ampie testimonianze, Iside conosce uno straordinario arricchimento degli attributi e delle prerogative, fino a far raggiungere la dimensione di divinità panthèa, secondo la definizione di Apuleio, divinità unica venerata sotto nomi diversi presso tutti i popoli.

ISIDE e il figlio HORO – VIII sec. a.C.

L’immagine, profondamente ellenizzata ma insieme radicata nell’antica tradizione egiziana, di Iside myriònyma («dai diecimila nomi») balza vivida soprattutto da quegli inni o «litanie» che si conviene generalmente di definire «aretalogie». In essi la dea stessa enuncia i propri poteri (dynàmeis) ed enumera i benefici largiti all’umanità, configurandosi quale tipica figura di «eroina culturale», in conformità al modello ellenistico dell’euretès, l’inventore delle principali istituzioni umane, insieme benefattore (euergètes), attributi entrambi sia di dei quale Dioniso, sia di eroi quale Eracle sia di condottieri e sovrani che proprio in virtù di tali prerogative assurgono al rango eroico e divino, divenendo oggetto di culto. Attestate epigraficamente in molte località del mondo greco e in documenti letterari, le aretalogie isiache sembrano derivare da un unico modello. Pur essendo notevole la parte di concezioni egiziane riflessa in questi documenti, è indubbia l’origine ellenistica del genere in questione, finalizzato alla diffusione del culto isiaco presso i popoli di cultura e di lingua greca. Lo schema aretalogico isiaco, dopo una rapida evocazione della genealogia della dea e delle sue principali sedi di culto, contempla la menzione delle sue imprese cosmogoniche (separazione della terra dal ciclo, fissazione della via percorsa dagli astri, dal sole e dalla luna), dei benefici largiti all’umanità (abolizione dell’antropofagia, istituzione del diritto pubblico e familiare, invenzione del linguaggio e della scrittura, istituzione dei riti religiosi, definizione delle norme etiche, invenzione della navigazione).

Iside accoglie Io in Egitto, da un affresco a Pompei, I secolo d.C.

L’enumerazione delle varie aretài (virtù) delinea l’immagine di Iside come potenza di respiro universale, signora dell’universo nella sua dimensione cosmica e umana insieme e, secondo alcuni documenti, reggitrice del destino astrale, quella Heirmarmène che si imponeva all’uomo di età ellenistica ed imperiale come forza oscura e tirannica, ai cui disegni egli era costretto dolorosamente a sottostare.

Questa prerogativa di Iside, che si esprime anche nell’appellativo frequente di Tyche o Fortuna con cui tanti fedeli l’invocano e che trova una vivida esemplificazione nella vicenda di Lucio narrata nelle Metamorfosi di Apuleio, mentre per un verso da intera la misura della dimensione tipicamente ellenistica della fisionomia della dea, per l’altro motiva il favore eccezionale di cui ha goduto il suo culto in questo periodo. In altri termini, la figura di Iside, nella ricchezza e varietà degli attributi ricordati e soprattutto nella sua qualità di potenza dominatrice della Heimarmène cosmica, pur radicata in una tradizione nazionale, è una tipica «creazione» dell’ellenismo, nel senso che ne riflette le istanze di tipo cosmopolitico e in pari tempo offre soddisfazione al bisogno di garanzie personali da parte dell’individuo, per la sua vita presente e anche per quella futura.

RADUNO ISIACO – Affresco di, I secolo d.C.

In proposito è essenziale il ruolo che la dea assolve, già secondo l’antica ideologia egiziana, all’interno della struttura mitico-rituale che la vede associata con lo sposo Osiride, il figlio Horo e le altre divinità del ciclo osirico (Seth, Anubi, Nefti). Il mito egiziano, nell’organica esposizione di Plutarco (Su Iside e Osiride), assegna ad Iside la funzione decisiva della ricerca del corpo smembrato dello sposo e della celebrazione di quei riti funebri mediante i quali, come recita l’aretalogia di Ossirinco, ella «ha reso immortale il grande Osiride». L’autore greco, testimone della fisionomia del culto e delle sue valenze ideologiche quali si erano configurate nel I-II secolo d.C., dichiara che la dea, dopo aver riportato vittoria su Tifone/Seth, «non si rassegnò a che le lotte e i travagli che aveva sopportati e il suo proprio vagabondaggio e le molte opere di sapienza, e le tante gesta di valore andassero, per così dire, perdute, accettando che l’oblio e il silenzio le avvolgessero, ma, congiungendo a santissime cerimonie immagini e sensi nascosti e rappresentazioni di quelle vicende di un tempo trascorso, consacrò un insegnamento di pietà e un motivo di consolazione per uomini e donne oppressi da simili sventure» (Su Iside e Osiride, 27).

TEMPIO DI ISIDE – Pompei II se. a.C

La vicenda divina, che contempla sofferenza e morte ma anche soluzione positiva nella «rianimazione» di Osiride che recupera la propria sovranità, sia pure nel regno dei morti, è diventata allo sguardo di un greco, consapevole di esperienze religiose tipiche dei culti greci a carattere misterico, un modello esemplare per l’uomo attuale che in essa, tradotta in termini rituali (le teletài), può trovare materia di speranza per un parallelo superamento delle difficoltà e dei patimenti della propria esistenza.

Se nell’antica tradizione egiziana i riti osirici a carattere funerario assicuravano al morto una buona sorte nell’Aldilà, la partecipazione del fedele al culto del dio non implicava il carattere iniziatico peculiare di un culto misterico. Sebbene Erodoto, venuto a parlare dei riti di Osiride, sia trattenuto dallo scrupolo religioso di rivelarne i contenuti in quanto relativi ad una vicenda luttuosa analoga a quella che in Grecia rientrava nell’orizzonte dei misteri, sì da poter definire tali le «sofferenze» (pathe) del dio egiziano evocati ritualmente nelle cerimonie di Sais, tutta la documentazione esclude la legittimità di tale definizione per i riti osirici, in quanto essi non contemplavano la componente iniziatica ed esoterica. Tale componente è assunta dal culto isiaco in età tardo-ellenistica e se Plutarco nel testo citato verisimilmente allude ad essa, Apuleio nel libro XI delle Metamorfosi ce ne offre la più completa ed espressiva testimonianza. Senza poterla analizzare in dettaglio, basti notare che essa contempla, dopo una serie di pratiche astensionistiche e catartiche, l’esperienza coinvolgente di un diretto contatto con la divinità, in un quadro di dimensioni cosmiche, e l’assunzione da parte dell’iniziato di connotazioni solari, espresse nella sacra veste con cui è abbigliato e offerto alla venerazione dei fedeli, la quale evoca uno scenario astrale. La dea cui attengono i misteri promette al fedele successo e benessere per la vita presente e, nella sua qualità di «regina dei defunti », un soggiorno beato nel regno infero, in cui egli godrà della visione luminosa di lei, splendente fra le «tenebre dell’Acheronte».

ISIDE-FORTUNA CON CORNUCOPIAE TIMONE, Statuetta romana del I secolo a.C.

Se lo scenario misterico, che contempla anche riti segreti del «grande Osiride», sembra modellato sullo schema eleusino e comunque è un’acquisizione tarda nell’ambito del culto isiaco, rimane peculiare di questo, riflesso della situazione religiosa del tempo, il rapporto di totale devozione e dedizione che la partecipazione ai riti iniziatici impone all’uomo. Il Lucio di Apuleio, in cambio della protezione divina che ha saputo spezzare i legami della cieca Fortuna e lo ha introdotto nei segreti del culto, deve promettere ad Iside la propria esistenza. L’«intero corso» della sua vita dovrà essere votato alla dea, configurandosi un legame di «religione personale» che, senza poter esser definito in termini di «conversione» in quanto persiste negli schemi di una devozione per una divinità particolare all’interno di un quadro politeistico, tuttavia esprime un’esperienza religiosa assai diversa, per intensità e qualità dell’impegno personale, rispetto a quella vissuta nelle tradizionali pratiche dei culti pubblici nazionali e, a quanto pare, anche degli stessi misteri di età classica. La partecipazione a questi ultimi, infatti, pur essendo frutto di una personale scelta, non implicava l’adesione ad una comunità né l’assunzione di particolari regole di condotta sicché l’esperienza di familiarità con gli dei titolari dei misteri restava circoscritta all’ambito cultuale.

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Da “STORIA DELLE RELIGIONI” – La Biblioteca di Repubblica

Foto: Rete

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